Arte, cultura e tradizioni

L'età moderna, il ripopolamento e l'Editto delle chiudende

Dopo trecento anni di rovina in seguito al saccheggio del capitano Carroz, nel 1655 Capoterra fu ripopolata dal barone Girolamo Torrelas grazie all'immigrazione di coloro che avevano avuto problemi con la giustizia. Nel 1820, l'Editto delle chiudende mise fine al feudalesimo.

Come per altri centri della Sardegna, tra la fine del Medioevo e i primi secoli dell’età moderna si è avuto anche a Capoterra un lungo periodo di spopolamento e di rovina. In questo caso, però, la causa di tale disgrazia non risiede nelle incursioni piratesche, bensì nel ferale saccheggio degli uomini di Berengario Carroz, comandante aragonese che mise a ferro e fuoco il paese nel 1353 in seguito ai contrasti del suo signore con Mariano IV d'Arborea.

Capoterra resterà vuota per trecento anni, venendo progressivamente ripopolata grazie al barone Girolamo Torrelas a partire dal 1655, a dispetto della terribile epidemia di peste che stava flagellando la Sardegna in quel periodo. Il nuovo centro urbano, denominato Villa Sant’Efisio, fu inizialmente costituito dai servitori e dagli accoliti dello stesso barone. La popolazione si ingrossò negli anni a venire grazie all'immigrazione proveniente dalla Sardegna settentrionale, soprattutto dal Logudoro e dalla Gallura: persone in debito con la giustizia che raggiunsero il paese attratti dalle condizioni vantaggiose concesse.

Probabilmente, durante i primi anni la popolazione del luogo era costituita da soggetti esperti nell’uso delle armi e nella difesa, ma con lo scorrere del tempo la situazione dovette normalizzarsi e Capoterra attraversò la parte restante dell’età moderna dedicandosi all'agricoltura e seguendo le indicazioni in merito del Marchese Stefano Manca di Villahermosa. L’interminabile epoca feudale si concluse nel 1820, quando Vittorio Emanuele I promulgò l’Editto delle chiudende instaurando di fatto la proprietà privata.

 


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